L’arte della guerra
Grandi manovre attorno al Venezuela
EDIZIONE
DEL22.08.2017
PUBBLICATO21.8.2017,
23:58
I
riflettori politico-mediatici, focalizzati su ciò che accade all’interno del
Venezuela, lasciano in ombra ciò che accade attorno al
Venezuela.
Nella
geografia del Pentagono, esso rientra nell’area dello U.S. Southern Command
(Southcom), uno dei sei «comandi combattenti unificati» in cui gli Usa dividono
il mondo. Il Southcom, che copre 31 paesi e 16 territori dell’America latina e
Caraibi, dispone di forze terrestri, navali, aeree e del corpo dei marines, cui
si aggiungono forze speciali e tre specifiche task force: la Joint Task Force
Bravo, dislocata nella base aerea di Soto Cano in Honduras, che organizza
esercitazioni multilaterali ed altre operazioni; la Joint Task Force
Guantanamo, dislocata nell’omonima base navale a Cuba, che effettua «operazioni
di detenzione e interrogatorio nel quadro della guerra al terrorismo»; la Joint
Interagency Task Force South, dislocata a Key West in Florida, con il compito
ufficiale di coordinare le «operazioni anti-droga» in tutta la regione.
La
crescente attività del Southcom indica che quanto dichiarato dal presidente
Trump l’11 agosto – «Abbiamo molte opzioni per il Venezuela, compresa una
possibile opzione militare» – non è una semplice minaccia verbale. Una speciale
forza dei marines, dotata di elicotteri da guerra, è stata dislocata lo scorso
giugno in Honduras per operazioni regionali della durata prevista di sei mesi.
Sempre nel quadro del Southcom si è svolta in giugno a Trinidad e Tobago
l’esercitazione Tradewinds, con la partecipazione di forze di 20 paesi delle
Americhe e dei Caraibi. In luglio si è svolta in Perú l’esercitazione navale
Unitas, con la partecipazioni di 18 paesi, e, in Paraguay, la
competizione-esercitazione di forze speciali di 20 paesi.
Dal
25 luglio al 4 agosto, centinaia di ufficiali di 20 paesi hanno preso parte
alla Panamax, esercitazione ufficialmente destinata alla «difesa del canale di
Panamá». Dal 31 luglio al 12 agosto si è svolta alla Joint Base Lewis–McChord
(Washington) la Mobility Guardian, «la più grande e realistica esercitazione di
mobilità aerea» con la partecipazione di 3000 uomini e 25 partner
internazionali, in particolare le forze aeree colombiane e brasiliane che si
sono esercitate in missioni diurne e notturne insieme a quelle statunitensi,
francesi e britanniche.
Lo
«scenario realistico» è quello di una grande operazione aerea, per trasportare
rapidamente forze e armamenti nella zona di intervento. In altre parole, la
prova dell’intervento militare in Venezuela minacciato da Trump. Base
principale sarebbe la confinante Colombia, collegata alla Nato dal 2013 da un
accordo di partnership. «Personale militare colombiano – documenta la Nato – ha
preso parte a numerosi corsi all’Accademia di Oberammergau (Germania) e al Nato
Defense College a Roma, partecipando anche a molte conferenze militari di alto
livello».
Che
esista già un piano di intervento militare in Venezuela è confermato
dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del Southcom: in una audizione al senato,
il 6 aprile 2017, dichiarava che «la crescente crisi umanitaria in Venezuela
potrebbe rendere necessaria una risposta regionale».
Per
realizzare l’«opzione militare» minacciata da Trump potrebbe essere adottata,
pur in un diverso contesto, la stessa strategia messa in atto in Libia e in
Siria: infiltrazione di forze speciali e mercenari che gettano benzina sui
focolai interni di tensione, provocando scontri armati; accusa al governo di
far strage del proprio popolo e conseguente «intervento umanitario» di una
coalizione a guida Usa.
Il manifesto, 22 Agosto 2017
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